Torino
Arcore non si comanda
se mi venissero a dire che il mio migliore amico mi ha fregato tanti mila euro almeno per un po’ gli toglierei il saluto o farei in modo di alterargli i lineamenti e se la mia fidanzata leggesse che io faccio il bischero con uno stormo di ventenni perizomate lei farebbe lo stesso con me e allora io mi chiedo da qualche giorno che cosa pensa di tutto questo la fidanzata di Berlusconi, povera.
c’è chi c’è già passato
in tutto questo rifrullo di satiri ottuagenari mi viene in mente che Bill Wyman negli anni ottanta andava con una ragazzina di 13 anni che si chiamava Mandy Smith e poi suo figlio si mise con la di lei madre, ma il bassista delle pietre rotolanti aveva solo 47 anni e capelli suoi
(H)AR(D)CORE
delazioni
da Paolo e Leo, attenti collezionisti della grafica più insensata ricevo questo capolavoro di biglietto da visita che cancella con pochi centimetri quadrati di carta millenni di evoluzione della comunicazione visiva.
P.S. è anche il loro parrucchiere
senza parole
io spero solo che uno qualsiasi degli dei sul mercato non salvi un made in Italy così.
un utile oggetto di riflessione
La scarpiera fino a poco tempo fa era uno di quegli arnesi (non riesco proprio a chiamarlo “mobile”) che guardavo da lontano con aria superiore, un po’ come si fa con Biscardi o Gasparri, ma che per inspiegabili equilibri di coppia è entrato subdolamente nella traiettoria del nostro rapporto. Un’attenta selezione portò la specialista di casa a mettere gli occhi su un oggettino ikeano dal solito nome pieno di consonanti capace di contenere 36 scarpe e di causare una nausea perenne nel sottoscritto. Questo avveniva lo scorso anno, perché quella scarpiera non è mai stata disponibile nel negozio Ikea facendomi pensare che il buon senso avesse avuto la meglio sui freddi piani di marketing di un’azienda che ha globalizzato il gusto scandinavo e le polpette (anche il primo spesso indigeribile). Venerdi ci è arrivata una mail: quella cacata era in negozio e siccome temevamo un improvvido calo di tensione abbiamo immediatamente programmato una puntata domenicale per accaparrarci l’agognato contenitore dei contenitori delle mie appendici. Alle otto emezzo, abbattuti i sedili e fatto un pieno in un distributore che annunciava il gasolio self a 1,285 e poi te lo fa ritrovare a 1,310, siam partiti all’alba verso quel non-luogo che è IKEA, che è infilato in quel non-luogo ancor più grande che è l’Osmannoro dentro cui sta l’Aiazzone scandinavo vicino a Chiappini, Roberto Cavalli, una discarica, la triste Metro e un paio di quegli alberghi che i francesi hanno disposto nei luoghi più brutti del pianeta, ma sempre ben visibili da un’autostrada trafficata. Il vantaggio di arrivare da Ikea venti minuti prima dell’apertura è che trovi parcheggio venti metri più vicino all’ingresso e poi ti fanno aspettare l’apertura in mezzo a un mucchio di gente, ma già dentro il negozio (non so se si possa chiamare così l’esperienza Ikea), appena salite le scale, fra i sacchi gialli, le pile di cataloghi e le matitine. Dopo i divani, gli scaffali, le cucine, le sedie, i tavoli, gli armadi, ma prima dei letti, dei giochi e di un caffè schifoso c’era la scarpiera dei sogni, in tutto il suo splendente color “nero-marrone” (una tonalità camaleontica pensata da strateghi della società per soddisfare una più ampia nicchia di mercato) e nella sua ammiccante funzionalità fatta da due pacchi separati da 35 chili l’uno e da, lo scoprirò dopo, un manuale di montaggio con una quarantina di passaggi e la ventilata capacità di contenere in uno spessore ridottissimo (e spero con grandi doti di isolamento olfattivo) quel popò di volume di calzature. Dopo una missione così, arrivati a casa verso mezzogiorno la giornata per me pareva esaurita tanto che, per compatirmi, la consueta emicrania domenicale non si è fatta vedere nemmeno da lontano. Adesso è tardi, le scatole sono aperte, il manualetto è lì con accanto il sacchettino delle 53 viti e della brugola, ho messo in carica l’avvitatore e aspetto in gloria che Jane se lo monti, quell’intruso.