mirakel

Mi è mancata una vite in un mobile Ikea.
Chiamala materializzazione dell’impossibile, concretizzazione dell’inaspettato, sorpresa delle sorprese, il tutto condensato in un moccolo a mezza voce.
La cerco, perché Ikea fa sì che tu non possa concepire un evento del genere, tipo i computer che fanno quel che gli dici e se sbagliano la colpa è tua, Ikea è uno strumento nelle tue mani, se qualcosa va storto è colpa tua, lei ti impacchetta la certezza e ti ci mette pure le istruzioni, scritte nella sua non-lingua fatta di omini stile Cavandoli. Quello che ti chiede è semplice fede (“vedrai tutto prenderà la forma giusta e anche se ora vedi solo delle lastre di un volgare truciolare se mi segui si trasformerà davanti a te in quello splendido letto dal nome pieno di consonanti”), un cacciavite e due mani. Basta.
Guardo dappertutto, è una vite a brugola, grossa, nera, lunga, che si stringe con la solita chiavetta fornita, una vite che doveva stare nel sacchetto con le sue compagne, ma non c’è, e il letto è lì, che aspetta di essere finito, un controsenso in pino, quando cominci a montare qualcosa di Ikea devi finirlo, il manuale va applicato senza interruzioni, è come interrompere un rosario, non la concepisci ‘sta cosa e l’effetto è, appunto, pura sorpresa.
Un mobile Ikea non finito ti lascia qualcosa dentro che sta a da qualche parte fra il fallimento personale e un cratere di meteorite. Un amico ti consiglia di andare in ferramenta, “tante volte c’avessero qualcosa di simile”, ma la trovo una soluzione blasfema, un mobile Ikea alla fine è fatto di una sostanza purissima che non tollera trapianti, non ci sono alternative ad un sicuro rigetto e allora la pratica ti suggerisce di fare un pellegrinaggio di una novantina di chilometri, entrare nella chiesa di Ikea e chiedere quella vite lì, che tanto ricordi che c’hanno un reparto resi e assistenza con una parete ricoperta di cassettini trasparenti pieni di vitine e SAI che lì, in quell’arca di Noè, ci sono tutte le forme di vita ferramentosa del cataloghi presenti e passati e per non sbagliare ti porti dietro il manualetto dove c’è il disegno e il codice della grande assente, ma l’addetta in gialloblu ti anticipa facendoti vedere il pdf delle istruzioni, zoommando sulla vite e chiedendoti tipo riconoscimento al commissariato: “è lei?”. Alla tua risposta affermativa la sacerdotessa si muove di qualche passo e si avvicina alla parete dei cassettini e comincia a cercarla alternando la ricerca fra la lettura dei codici che contrassegnano ogni scomparto e lo sguardo attraverso la trasparenza dei piccoli loculi.
Non c’è.
No, non c’è.
Un altro breve rallentamento della rotazione terrestre, niente di grave, solo una piccola sfollata.
Mi guarda, vede che precipito e allunga una mano:
“Gliela spediamo”.
Lascio l’indirizzo, è una cosa strana la delusione che mi si irradia dentro e nemmeno la prospettiva di riempirmi come al solito le tasche di piccoli lapis appuntiti riesce a restituire la logica a una maestosa serie di eventi contronatura per cui traccio meccanicamente il solito percorso all’interno di un dejà-vu, ma senza l’abituale piacere della visita: scala, tornello, divani, divani letti, poltrone, mobili tv, tavolini da fumo, librerie, tavoli, cucine, guardaroba, camera, bambini, e nemmeno il ristorante con vista sull’aeroporto di Peretola che di solito riesce a farti sentire l’eccitazione di un viaggiatore prima dell’imbarco riesce a restituirmi leggerezza, mi sento come quando devo andare ad una messa dove tutti seguono il rito e io no, anche se mi ricordo a memoria ogni passo, parola per parola, ma non muovo un muscolo, al massimo mi alzo e mi siedo al ritmo dei fedeli che mi imbarazzano quando mi porgono la mano per scambiare un segno di pace. No, via, già è una cosa contronatura che manchi la vite nel sacchettino, ma se poi non la trovano nel tempio allora a vacillare è tutto il sistema.
Quello della spedizione a casa è uno scenario inconcepibile per me nel sistema Ikea e di conseguenza non sto nemmeno a pensare quando mi arriverà quella vite, è venerdi pomeriggio.
Mercoledi mattina stringo tra le mani una busta gialla con gli adesivi della dogana e un affrancatura svedese e sono pronto a celebrare la resurrezione di Fjellse, il letto più cheap della religione Ikea.

le parole sono importanti (anche la loro forma)

e prima del font bisogna trovare anche le parole per spiegarglielo, a certi clienti.

under reconstruction

in attesa di vederlo su questi schermi con un suffisso .it questa è una delle più brutte pagine “in costruzione” ed è quella del sito del governo egiziano.

da paolo_le parole sono importanti

“Una parola, a volte, vale più di mille immagini e questo è un esempio molto chiarissimo.”

gente che vuole la libertà

Dopo la risata mi viene in mente di questa gente che va alla manifestazione coi suoi giacconi che sanno di armadio e il dopobarba pesante e poi gli danno un cartello prestampato da mettersi al collo, uno a caso con un tema a caso, giusto per ribadire una certa libertà di pensiero.

è perfetta e l’ho presa qua

fighezza seriale

entro nel Lingotto e mi ritrovo col naso all’insù a rimirare la rampa elicoidale che porta alla pista sul tetto, una ventina e passa di metri più in alto. Una vertigine all’incontrario che voglio fermare con una foto, per cui prendo la macchina la levo dalla custodia, tolgo il tappo dall’obiettivo, l’accendo, setto il programma, bilancio il bianco, zummo (che schifo, scritto così) e faccio un po’ discatti fra 16:9 e 4:3.
Poi prendo anche l’iPod Touch di Jane e scatto una foto con Hipstamatic. Stop.
A casa scarico le foto, non c’è gara: la foto sfuocata, verdastra, a bassa risoluzione e piena di rumore mi piace di più della serie di immagini da 10 megapixel scattate con obiettivo Leica dalla Lumix.
Perché? O meglio, davvero?
L’estetica fotografica, televisiva e cinematografica dominante degli ultimi anni si è “lomo-izzata”, spesso “low-fi-zzata” e sporcata, ma in generale alterata cromaticamente. Se guardi una qualsiasi produzione americana su sky, film o serial che sia, avrà tutti i mezzitoni tendenti al verdastro o a tonalità fredde con contrasti accentuati, ombre scurissime e luci abbaglianti, lontano anni luce dalla fedele riproduzione del reale.
Ecco. Quale reale?
A me piace di più questa rappresentazione e non devo essere il solo se qualsiasi foto del cazzo scattata con un’applicazione che costa meno di un caffè da un possessore di iPhone fa scrivere commenti entusiasti dagli amici di faccialibro™ o riempie le pagine di periodici di moda o quelle della bibbia degli onanisti geek come la versione italiana di Wired.
Non c’è verso, le prime foto che ho fatto sono dettagliatissime, ma non reggono il confronto, sembrano piatte, inconsistenti, mentre nell’altra l’architettura sembra esprimere qualcosa in più che però, a guardarla da sola non riesco a cogliere, un non so che che sfugge continuamente alle ipotesi che provo a formulare tipo il paradosso della tartaruga con la lepre.
Mi piace perché mi deve piacere, sono allenato a quest’estetica, l’ho digerita insieme a milioni e milioni di altre persone, me ne nutro ogni giorno, che scemo che sono: piace a me come al piccolo imprenditore di Cesano Maderno o al graffitista di Shangai, nella stessa maniera, perché è ad alta digeribilità, senza sapore nella sua ridondante piattezza, tipo fast food.
Arrivati.
Fast photo.
Niente di più, niente di meno.
Basso costo, tante calorie, sapori uniformi in ogni parte del globo: ti piacerà dovunque e comunque.
Al che ho fatto la riprova: sul treno ho fotografato la testa che spuntava dalla sommità del sedile del passeggero di fronte a me, una roba che nella scala dell’attrazione sta fra la perdita di un tubo e l’epistassi notturna.
Regge, anche lei.
È questa qua.

E allora?
E allora niente, un pugno di mosche da fotografare.
Mi dico che le mie son seghe mentali, ma mi convinco che un’alterazione della realtà così è talmente seriale e prevedibile che puzza intollerabilmente di conformismo.
Solo più verde e figo dei precedenti.

da Jo_quei simpatici sabati sera

jo mi manda questa pagina pubblicitaria delle assicurazioni Allianz ed apre il cuore ai suoi dubbi:
“Ma sono io che esagero o questa cosa è realmente di cattivo gusto?”

(ai miei occhi avvezzi a tutto questa comunicazione si pone meritatamente fra la pratica dell’abbandono dei feti nei cassonetti e quella della sodomia di bambini sordo ciechi)

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