auto(im)mobile
al di là di una stima di 1500 ore annue che ritengo esagerata, resta il fatto che il rapporto uomo/automezzo ha contorni grotteschi: da quelli quantificabili in tempo e distanze all’aberrante necessità di possedere per esibire uno status (un conflitto che vivo in prima persona pensando a cambiare la mia stronzomobile di otto anni…).
Il più delle volte quelle grandi macchine dai vetri fumé sono guidate da utilitarie dell’essere coi fanali bruciati.
quattromila iPod per ballare in silenzio
venerdi scorso più di 4.000 persone hanno ballato all’ora di punta all’interno della stazione di Victoria nel centro di Londra dando vita al più grande flashmob della Gran-Bretagna. I partecipanti hanno aderito alla catena di mail degli organizzatori (mobileclubbing.com) che invitavano “a ballare come non avete mai ballato prima”, alle 6 e 35.
Immagino gli ammiccamenti e sguardi complici fra la persone con le cuffie prima dell’inizio.
Al termine di un conto alla rovescia di 10 secondi il flashmob ha preso forma spezzando il silenzio e, immagino, sorprendendo chi si trovava lì solo per prendere il treno: è durato due ore, fino a quando quattro camionette di poliziotti hanno disperso la folla degli iPod.
Mi è tornata in mente quella parte dello spettacolo di Luttazzi in cui lui chiede al pubblico di schioccare le dita al suo comando: un suono assurdo e fortissimo, generato dall’unione di tante piccole azioni, che, all’unisono creano una potenza inaspettata, quella, appunto, del gruppo.
update_mi piacerebbe avere una hit parade dei brani che passavano nei fili degli auricolari, in quelle due ore.
Ci fossi stato avrei messo in loop “Year Zero” dei Nine Inch Nails e mi sarei perso per un po’.
a windy day
il vento scuote la copertura in nylon di un cantiere creando figure stranissime controsole.
Il rumore di questa vela enorme che si scuote si sente a centinaia di metri.
Qua il video.
fuck the landscape
se fosse un rebus potrebbe recitare divieto di accesso all’offesa del territorio, invece è uno scorcio di Genova dall’entrata della mostra di Emanuele Luzzati
gb_sul tempo
ovvero
il tempo (quello che bagna, abbronza e fa sudare)
come metafora
del tempo (quello che fa crescere le unghie e l’esperienza)
Da queste parti la chiamano “english summer” ed è un eufemismo per spacciarti un’instabilità meteorologica insopportabile fatta di nuvole che corrono. Alzi gli occhi e ti sembra di vedere Koyanisqaatsi o lo sfondo di “Che tempo che fa”. Il tempo cambia ad una velocità impressionante. Acqua, sole, caldo, freddo in un looping velocissimo da luce a ombra, da sudore a brividi, da asciutto a bagnato.
Loro ci sono abituati, io fatico.
Il tempo è uno di quegli argomenti che qua unisce tutte le generazioni che si trovano ad interrogarsi in un’unica e costante digressione sul divenire.
da ofp_circolo ellenico
Potenza delle ferie che restituiscono i cinque sensi alle nostre esistenze. Gioite tutti del ritorno di oleg!
Sono qua seduto al bagno ( stabilimento balneare, non cesso ), accanto a me, un tavolino di ragazzotti sedicenni sta discettando.
Io sono preso dal libro di Dave Eggers, ma il firewall del mio padiglione auricolare deve avere qualche difetto perché odo questa conversazione:
– Ieri ho sentito la Schweppes Lemon… buona!…
Silenzio/assenso degli astanti.
– La Schweppes normale invece, non l’ho mai sentita. Com’è?
Silenzio disorienato dei commensali
– Di che sa?- La pischella brama di sapere
– Hai presente il Gin Fizz?- Irrompe uno dei ragazzi- Lo hai mai bevuto, il Gin Fizz?
– Beh… Si… – Risponde esitante la topina
– Ecco!… Il Gin Fizz è Gin assieme alla Schweppes normale…!
– Mhh..Mh! – Gli altri annuiscono solennemente, ringraziandolo per averli cavati fuori da un vicolo cieco. La tipa continua a mangiare il gelato.
– Io mi alzo deferente. E porto le mie ciabatte a prendere un caffè.
Dopo qualche minuto, mentro sono qui che scrivo, mi passano accanto due delle ragazze che formavano l’accolita. Ridono di quella risposta.
E anche se loro due non lo sanno, hanno appena salvato il pianeta terra.
non ho il dolby
ai primi di dicembre, in aereo, molto raffreddato, durante il volo sento le orecchie intasarsi. Letteralmente. Mi si ovattano i suoni e avverto un fastidio fisico nella testa. Scendo pensando che se ne andrà , cosa che fa, ma solo in parte. Disagio passeggero, mi dico. Tutt’altro.
Di allora mi rimane un leggero fischio, continuo, che mi accompagna e che sento solo io. Non sapete cosa vi perdete.
Per capirsi, è la sensazione che si prova all’uscita da un concerto: vai a letto che ti fischiano le orecchie, fiiiiiiiiiiiiiiiiii, e la mattina il ronzio è bell’e che sfumato. Qui, quella sensazione spiacevole si spalma su ogni istante.
Si chiama acufeni, questo stronzo, oppure tinnitus in latino, che è già meglio e ho imparato a conviverci cercando di non dargli soddisfazione in special modo quando vado a dormire e lui, in mezzo a quell’agognato silenzio, può urlare in mezzo ai miei pensieri.
Scientificamente, quello che succede, anche in casi di lieve acufene persistente, è l’attivazione di una risposta condizionata da questo suono (evocato come descritto dall’attività elettrica di base delle cellule nervose del sistema uditivo) da parte del nostro cervello: il problema sta sempre lì.
A precisa domanda l’otorino mi ha risposto che me lo tengo oppure, se ho fortuna, sarà lui a decidere di andarsene, un po’ come la diarrea e Calderoli.