istantanee riordinate

di ieri, qualche immagine

il deserto della domenica mattina presto a Livorno
il viso di mia nonna, 99 anni, che gliene davi venticinque meno
la chiesetta vuota con le suore d’importazione
il “dispenser” dell’incenso da cui non usciva il fumo
la custodia degli occhiali della suora di Pierre Cardin appoggiata sulla panca
il prete che alle nove deve essere a Quercianella
la Corea di Livorno costruita durante la guerra in Corea
il cimitero dei Lupi con davanti il deposito delle auto sbarcate da navi enormi
il carro funebre con la croce aerodinamica
il carro funebre col gps per sapere sempre dove sta andando
l’autista che fuma mentre guida e io mi immagino la nonna Luisa dietro che lo infama
il parcheggiatore abusivo dell’area di servizio
il carro funebre parcheggiato al sole nell’area di servizio
il traffico della domenica, ci si sposta per il riposo di un giorno e per quello eterno
la radio che dice che per capire il vino bisogna aver coltivato la memoria degli odori fin da piccoli
l’arrivo al paese della nonna, la sua essenza
la vicina di casa che intercetta con lo sguardo il carro funebre (e mi immagino che si faccia il segno della croce)
il cimitero su un colle isolato, tutto per sè collegato al paese da una strada sterrata con doppia filare di cipressi
lo scoiattolo che sale sul cipresso
due parenti che aspettano sotto un cielo limpidissimo
la maniglia di ottone della bara che tengo con una mano
la zia che mi dice che la nonna era contenta di quella posizione perché così vede il lago
io che mi volto e il panorama è lì, splendido come può essere il sud della Toscana
il muratore che mette i mattoni
il muratore che scrive Luisa Feri sul cemento fresco con una scheggia, come quando scrivi col dito sulla sabbia
il muratore che disegna una croce sul cemento fresco
io che guardo i font delle lapidi
nonno Pietro che era alto e se ci fosse stata l’ecografia non sarebbe morto
nonna Elena con la foto che le feci io
nonno Amleto che me lo ricordo che guidava la Ford
zia Cesira piccolissima e forte
nonno Tullio, grande e grosso coi ciglioni da cattivo delle comiche
la nonna Maria che quando ero piccolo mi portavano a baciare e mi sembrava vecchissima
il pranzo, noi cinque, come un funerale irlandese che si va al pub
il ricordo della nonna che mangia in quel ristorante e le piace
la casa della nonna piena zeppa di passato
la pagella delle elementari della nonna
la pagella delle elementari del 1908 della zia che aveva 10 in lavori donneschi
io che mi chiedo se tornerò a Chiusi
una lettera dalle Dolomiti di mio padre del ’72 ai genitori in cui dice “speriamo di riposarci…con Michele”
io che a distanza di 35 anni dico la stessa cose delle vacanze con A+Z
il viaggio di ritorno col traffico, il controsole e le code
gli stormi di folaghe all’ingresso di Livorno
Livorno che arrivi e ci entri dalla parte dei depositi di container
la casa di cura

ti sia lieve la terra

terminal

l’approccio al porto di Livorno in una prima mattinata di fine agosto regala afose visioni di terminal oltre alla fredda visione della fine di un periodo in cui non ho acceso il computer, ho letto quattro libri e tre giornali femminili, bevuto molta birra freddissima,sguazzato in acque trasparenti e salatissime con tre Winx, insegnato i rudimenti della pallavolo e rifiutato la mia immagine in foto.

la cecina (con l’accento sulla i)

alla mia domanda sul perché non facesse la cecina, Moreno della pizzeria Vecchia Viareggio (una delle migliori in zona) mi rispose che ci voleva un forno caldissimo e, sopratutto, non ne valeva la pena, “che tanto c’è Rizzieri”.
Queste parole mi sono tornate in mente ieri mentre, fronteggiando spavaldamente un feroce attacco di voglia di cecina, guardavo le fiamme del forno di Rizzieri avvolgere l’enorme teglione incrostato di rame stagnato in cui cuoce (anzi sublima) il piatto più semplice del mondo. E anche uno dei più difficili da realizzare, con l’equilibrio delicatissimo di acqua e farina di ceci, sale e olio che la fa assomigliare più ad una ricetta da alchimista che a cibo da banco o da strada. È già spettacolare vedere come viene infornato, liquidissimo e di un giallo pallidino che nella cottura diventa vivissimo e con una consistenza che va dal morbido che si scioglie in bocca al friabile passando attraverso tutti gli stadi intermedi del piacere del gusto e poi quel cartello, “per la cecina chiedere all’addetto”…


Come al solito, quando è uscita dal forno, enorme, sbavando ne ho ordinato quattro pezzi, li ho innaffiati di pepe nero e ho fatto a metà con Aria che mi sorrideva tentando di dare un’occhiata dal basso al bancone.

Non è a Viareggio, ma per farvi un’idea date un’occhiata al sito del Seghieri, un tortaio di Livorno.

da wikipedia:
Una leggenda racconta che sia nato per casualità nel 1284, quando Genova sconfisse Pisa nella battaglia della Meloria. Le galere genovesi, cariche di vogatori progionieri si trovarono coinvolte in una tempesta. Nel trambusto alcuni barilotti d’olio e sacchi di ceci si rovesciarono, inzuppandosi di acqua salata. Poiché le provviste erano quelle che erano e non c’era molto da scegliere, si recuperò il possibile e ai marinai vennero date scodelle di una purè informe di ceci e olio. Nel tentativo di rendere meno peggio la cosa, alcune scodelle vennero lasciate al sole, che asciugò il composto in una specie di frittella. Rientrati a terra i genovesi pensarono di migliorare la scoperta improvvisata, cuocendo la purea in forno. Il risultato piacque e per scherno agli sconfitti, venne chiamato
l’oro di Pisa.

I’ve been za za za

un altro timelapse, il giorno dopo, qua.

I be za za za

una giornata di lavoro in trenta secondi. Qua.

[l’altro giorno ho letto questa lettera che avrei potuto scrivere io una ventina d’anni fa] 

precisazione

a proposito del post del 26 aprile Roberto mi scrive che il detto livornese corretto è:
“ogni testa dura trova il su’ scoglio”,
che in effetti mi torna di più.

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